Questa settimana sono intervenuto in Commissione IMCO sul tema della durabilità dei prodotti e del collegato argomento dell’usa e getta.
Siamo tutti consapevoli di vivere in un epoca in cui la pratica dell’usa e getta è ormai la norma. Non ci stupisce più il dover sostituire, spesso dopo periodi di tempo molto brevi, le apparecchiature che abbiamo acquistato. In parte perché non più funzionanti (ed a tal proposito sarebbe il caso di fare una seria riflessione su tutti quei casi di “obsolescenza programmata”, che rendono inevitabile la sostituzione del bene con un modello o una versione più nuova), ma in alcuni casi anche solo perché percepiti, appunto, come obsoleti e non più corrispondenti agli standard imposti dal marketing e dalla società.

Si tratta però di un’impostazione che sta comportando un consumo, diciamo pure uno spreco, di risorse enorme, sia per quanto riguarda le materie prime da lavorare sia per quanto riguarda l’energia consumata per la produzione, con solo minimi vantaggi (se mai ce ne sono) nel campo della produttività, considerato che spesso le industrie che producono beni di massa delocalizzano in Paesi terzi dove trova manodopera a bassissimo costo.

Dobbiamo perciò riscoprire il valore della riparabilità: è importante che i beni, soprattutto quelli con costo maggiore e che quindi maggiormente rappresentano un “investimento” da parte del consumatore, possano facilmente vedere la propria funzionalità stabilita. Oltre agli evidenti benefici in campo ambientale, non dobbiamo sottovalutare quelli in campo socioeconomico, con la rinascita di professionalità adatte a questo scopo: posti di lavoro che richiedono competenze specifiche, che non possono essere delocalizzati e che anzi rafforzano il tessuto sociale locale.

Ed in quest’ottica sono d’accordo nel difenderne anche l’indipendenza: la riparazione non dovrebbe essere in qualche modo “vincolata” dalla casa produttrice, ma al contrario dovrebbe essere legata ad un libero mercato dei pezzi di ricambio che fornirebbe opportunità di crescita e sviluppo anche alle nostre PMI. E quando la riparazione non fosse possibile, non dovremmo scoraggiare forme di “riutilizzo”, che attribuiscano al bene una funzionalità nuova, in modo tale che la sua eliminazione resti solo come ultima possibilità.

Una riflessione particolare meritano i software: è ovvio che si tratti di prodotti in continuo sviluppo e crescita e pensare di limitare questo flusso significherebbe di fatto compromettere il settore. Ciò che dovremmo evitare, piuttosto, è che la funzionalità dell’hardware venga compromessa nel caso in cui questo non possa supportare l’aggiornamento del software.  Non devo, in sostanza, essere obbligato a cambiare il mio telefonino solo perché questo non supporta un aggiornamento, ma devo poter continuare ad utilizzarlo anche qualora rifiuti l’aggiornamento in questione.

Solo un ultima nota invece per quanto riguarda i periodi di garanzia: dovremo fare attenzione affinché le indicazioni che emergeranno da questo report siano coerenti con le posizioni che il Parlamento esprimerà nelle direttive sui contratti, per evitare conflitti tra i testi che potrebbero dare l’impressione di un colegislatore che non ha ben chiara la propria volontà in merito.